Voglia di albero
di Luigi Delloste
L’albero, nella sua accezione più elementare ha, per il ruolo e quindi la presenza che occupa in natura, un enorme significato. Una straordinaria importanza, un ruolo assolutamente primario nella sua inconfutabile indispensabilità. E di ciò credo ormai la maggioranza di noi sia consapevole. Stento comunque ancora a comprenderne, appieno, dopo così tanti anni di studio e ricerca e lavoro in questo settore le potenzialità dell’albero, le incredibili opportunità che in ogni modo, in ogni momento e in ogni luogo ha offerto, offre e offrirà ancora, che esista o no il genere umano, alla terra. Per inciso, dopo gli alberi arriviamo noi e riusciamo nel giro di un limitato periodo (vediamolo in relazione al tempo espresso in ere geologiche) a creare un sistema globale del tutto fallimentare se verificato dalla prospettiva della convivenza con la natura. Presuntuosi nella sicurezza del “progresso umano”, abbiamo in ogni modo costruito la nostra società correndo da soli, mai adeguandoci all’intorno. Soltanto in rarissimi casi di piccole comunità si è potuto in qualche modo dimostrare la possibilità della convivenza in un sistema adeguato e commisurato alla natura, tale da non stravolgerla in alcun modo. Questa esplicitazione investe purtroppo un più ampio e drammatico significato. Siamo stati e siamo tuttora in grado di demolire deliberatamente quanto così finemente elaborato, seppur entropicamente, in così tanto tempo dalla natura. Il tutto in un gioco di proporzioni straordinarie, del quale l’uomo sinora ha appreso e misurato ben poco, pur essendo attore, pur riconoscendo, in parte, le proprie e infinite stupidaggini compiute, dove, e non solo di recente, ma già anche in passato, dal contadino allo studioso, serpeggiava il dubbio che lo stesso genere umano stesse distruggendo la natura… Nell’antica Grecia il rapporto uomo-ambiente era un insieme unitario, una visione antropocentrica in cui l’essere umano è il centro focale nella realtà naturale, unico ed indiscusso dominatore. Tuttavia la natura ha una doppia natura: è tanto un locus amenus, quanto un locus horridus.
Vien da pensare che in questi chiari concetti risieda fondamentalmente la chiave di lettura che ci aiuta a comprendere quanto il genere umano abbia ancora oggi timore della natura,
dove il suo costruito sia sostanzialmente l’effimero scudo posto a baluardo appunto delle imponenti bizzarrie della natura.
L’ambiente per gli antichi greci viene concepito come amenus in quanto sinonimo di pace, meraviglia, serenità ma ciò è solo un lato delle due facce di un’unica medaglia. Poiché la natura è horrida, è instabile, è pericolosa e spietata. In tutto ciò crediamo, pur strascicamente, nell’indubbia necessità della presenza dell’albero con noi, nei nostri luoghi (ricchi di protezione), solo per noi. Riusciamo ad inserirlo in ogni dove, con criteri essenzialmente paesaggistici, il bello del verde diventa perennante e assolutistico, perchè abbiamo un estremo bisogno di forme comprensibili, riconoscibili e soprattutto condivisibili, perdendoci ovviamente la ragionevolezza del sostenibile. Imponiamo alla natura umanizzata gioghi stremanti, intollerabili ma dove ancora i nostri occhi (forse non di tutti) s’illuminano nel non comprendere come sia possibile la sopravvivenza.
Escogitiamo pensieri architettonici, in esigenze volumetriche, su occorrenze cromatiche, arrivando ad imporre piantamenti,
messe a dimora di “schiavi” ridicolizzati ed evirati della propria dignità, della propria identità di appartenenza a una specie vegetale con precise esigenze di vita selezionate nel luogo di crescita durante la sua evoluzione.
Questi alberi devono produrre ossigeno e semplificarci la vita. Questi alberi devono esistere a tutti i costi nel contesto antropico, a tutti i costi...
Poiché per averli spendiamo, stanziamo bilanci con cifre incredibili (soldo = Energia, Energia = inquinamento, ricordiamolo!) al fine di ottenere una “strana” natura in città, costosa e a volte, purtroppo, anche rischiosa. Tutto ciò non solo per la realizzazione di nuovi impianti ma anche per la gestione degli stessi. Tutto ciò senza fare i conti proprio con la natura, quei conti grazie ai quali potremmo capire qualcosa di più sulla faticosa gestione dell’albero in città. Aggiungerei forse anche alle fatiche che imponiamo alla natura per volere quanto vogliamo. E così riusciamo a riproporre la sua presenza in luoghi inammissibili, solo in funzione dell’inattendibile amore (timore reverenziale, desiderio di sfida e dominazione, ndr.) che dimostriamo nei suoi confronti, mettendoci così al riparo dagli scrupoli che ci facciamo per dimostrare impegno nella salvaguardia della natura e dell’uomo nella natura legata all’antropico.
Siamo veramente ancora MOLTO più indietro di quello che emerge in tutte le polemiche di sapienza diffusa sulle logiche della gestione dell’albero in città o in luoghi urbanizzati.
Sullo sfruttamento delle foreste, sulla necessità di circondarci di alberi, poiché convinti che il nostro progresso ci permette di fare qualsiasi cosa, addirittura di prevedere con calcoli e tabelle il rischio o meglio l’imprevedibilità che nulla di negativo possa mai accadere, ancora oggi… .... dalla tempesta Vaia allo schianto di un solo albero.
Ricordo Karl Raimund Popper: E’ impossibile che l’improbabile non accada mai. Considerate tale severità, ma se da una parte vedo positiva la necessità di parlare, dire, comunicare, dall’altra un po’ più di attenzione a ciò che si dice soprattutto nel giudicare gli altri, pregherei di porla. Questo perché “dopo” è facile dire com’è andata, così com’è facile dire: io saprei come fare. Ma se gli antichi citando Cicerone se la cavavano con la locuzione “Historia magistra vitae” oggi, forse, abbiamo anche bisogno di una buona dose di umiltà adeguata alla voglia di fare, risolvere, per cavarcela in questo percorso di cambiamento cui dobbiamo sottostare se vogliamo effettivamente migliorare la sopravvivenza del rapporto con la natura.
Anche solo per un istante, rivolgiamo il pensiero alle sensazioni che riceviamo nel percorrere quel timido sentiero nella natura, nella quale esiste perfino qualche piccola presenza selvatica. Quel sentiero appena appena tracciato, dove alcune tele di ragni ci sbarrano il passo. In quell’ambiente che si interpone all’istinto sopito in noi, dove a tratti riusciamo ad ascoltare ancora la nostra fretta, con alle spalle la paura, del percorrere salvi da imprevisti questo cammino.
Luigi Delloste
Foto e testi dell’autore.