Andrea - responsabile scientifico e treeclimber
Luisa - responsabile logistica
Pietro - esperto informatico e tecnico misurazioni
Renzo - video e fotografia
Il Cile in cifre
Superficie: 755.838,7 km2
Popolazione 17.910.000 ab. (stima 2016)
Andrea - responsabile scientifico e treeclimber
Luisa - responsabile logistica
Pietro - esperto informatico e tecnico misurazioni
Renzo - video e fotografia
I NUMERI PRICIPALI
Km percorsi: 5.500
Durata spedizione: 15 giorni
N. alberi misurati: 90
N° specie arboree censite: 4
Pianta più alta misurata: 54,30 m
"Il Cile, è un paese situato nell'estremo sudovest del continente americano."
"Il territorio del Cile continentale si colloca su una lunga striscia di terra situata fra l'Oceano Pacifico e la Cordigliera delle Ande."
"La grande lunghezza del Cile determina notevoli differenze climatiche tra le varie regioni del nord, del centro e del sud del paese."
"I Parchi nazionali del Cile sono 36 e coprono un'area totale di 9.141.200 ettari, quelli della regione Araucania sono famosi per i loro vulcani e per le araucarie che danno il nome alla regione."
Superficie: 755.838,7 km2
Popolazione 17.910.000 ab. (stima 2016)
Regione: Araucania
La Regione dell’Araucania, che prende il suo nome proprio dalla presenza di queste piante caratteristiche, è ricca di laghi, vulcani attivi e spenti, foreste miste o pure di Araucarie e Coigue (Faggi cileni).
Parchi visitati: Parque National Conguillo, Herquehue, Villarica, Tohuaca, Malleco, Hualalafqen, Riserva Nazionale Malalcahuello.
Superficie: 31.842 km2
Popolazione 889 492 ab.(stima 2012)
Curiosità
Curiosità
Curiosità
All’aeroporto di Roma Luca Cordero di Montezemolo inaugura il primo volo Alitalia Roma Santiago del Cile. Prima di andarsene mi guarda. Il mio zaino in spalla, portamento, vestiti e scarponi compresi,
da “Indiana Jones”, evidentemente molto in contrasto con le giacche e i doppiopetti presenti.
“Ma sei un passeggero?”
“Si vado in Cile a scoprire, scalare e misurare le Araucarie” “Bello” “Le mando il resoconto se posso”. “Ma certo!” Pacca sulla spalla e fugge via.
A Santiago, dopo aver sbrigato tutte le formalità e caricato il gippone di tutti i bagagli si parte
immediatamente per il Sud. Il GPS segna oltre 600 km per Temuco.
Porta del Sud del Cile, dei parchi dei Vulcani e dei Draghi Verdi.
La "carrettera" sale, i vulcani sono sempre più vicini. Incontriamo un pioppo cipressino di oltre sei metri di circonferenza e a seguire i primi boschi di notofagus, molto simili ai nostri faggi, ma con le foglie più piccole. Alcune specie sono sempreverdi altre a foglia caduca e colorano di rossi accesi i boschi trapuntati di un verde scuro. Sono le araucarie che si cominciano a intravedere.
Riusciamo a capire dov’è l’Araucaria Madre, la più grande del Cile parlando un po' in inglese un pò in spagnolo un po' in italiano con una ragazza che vende souvenirs nel mezzo della foresta. L’attrezzatura è già pronta per il giorno dopo.
La grande madre è lì davanti a me. Imponente. Ma la sensazione non è di paura. Piuttosto di rispetto. E, guardando l’enorme albero, osservando la sua impensabile architettura subito diventa chiaro che sarà impossibile salire.
Comunque lancio il sagolino e in poco tempo guadagno il primo ramo. Grazie ad una seconda punta di sostituzione (cima secondaria) riesco a mettere la longe e a issarmi sopra il primo punto di ancoraggio. Sono in piedi sul primo ramo della Araucaria Madre a 24,07 metri.
L’Araucaria Madre, sacra al popolo Mapuche, si innalza ancora sopra di me di molti metri. Ma è dalla punta di un vicino “coigue” che si poteva studiare bene. E proprio da lì osservare la sua conformazione e la sua struttura veramente straordinaria.
Tra gli alti bambù vagavo oramai da molte ore. Del sentiero neppure l’ombra. Le araucarie tutte uguali non mi davano informazioni su dove mi trovavo. Dovevo accettare la realtà. Mi ero perso.
Il più grosso Coigue misurato fino ad allora arrivava ad otto metri di circonferenza, quello che avevo davanti ne misurava più di nove per oltre quaranta metri di altezza. Attualmente è il più grosso Nothofagus misurato al mondo. Lo battezzai col nome di "Lord of the Forest".
Ma solo in cima al monte, sopra il lago Herqeuque, finalmente ho trovato il mio grande drago. L’avevo vista da lontano. Più punte si distribuivano a raggiera amplificando la già enorme chioma. Era l’araucaria più alta al mondo misurata fino ad ora: 54,30 metri con una circonferenza di 5,49 centimetri e mi aveva chiamato in sogno.
Ero a poco più di un metro di distanza da una gemma che da oltre mille anni non aveva mai smesso di crescere. Attorniata e protetta dai rami secondari, già pieni di coni e di semi, continuava a crescere di pochi millimetri all’anno, da sempre, inesorabilmente. Una piccola gemma incastonata in una corona di spine verdi.
Così, con un grosso pick up siamo già sulla Panamericana, la strada più lunga del mondo, che si estende dall'Alaska
fino alla terra del Fuoco per arrivare nella zona dei grandi dei Parchi Nazionali della Araucania, la regione del Cile che ha dato
il nome a questi incredibili alberi (Parque National Conguillo, Herquehue, Puyehue e tanti altri).
La “carrettera” sale ripida, i vulcani sono sempre più vicini. Incontriamo un grosso pioppo cipressino di oltre sei metri di circonferenza e a seguire i primi boschi di notofagus, molto simili ai nostri faggi, infatti lo chiamano faggio del sud, ma con le foglie più piccole.
Alcune specie sono sempreverdi ma altre, a foglia caduca, colorano di rossi accesi i boschi trapuntati del verde scuro delle araucarie che si cominciano a intravedere.
Dopo una curva, incontro la prima grande araucaria nel suo ambiente naturale. Metà del piatto radicale sventola sopra un dirupo, ma sostiene comunque un fusto di quasi cinque metri di circonferenza e almeno 30 metri di altezza.
Gli altissimi "coigue" (faggi cileni) mescolati alle araucarie, sono grandi e meravigliosi. Alcuni arrivano quasi a 60 metri di altezza e con circonferenze maggiori di 5-6 metri.
Il silenzio è ovunque e il profumo del bosco mi sorprende. La strada invece è sempre peggio, fangosa e viscida. Metto la doppia trazione.
Arranco, mentre la foresta cambia ogni cento metri a seconda dei fiumi di lava che sono scesi nei secoli scorsi, dei corsi d’acqua, delle vie del fuoco.
Si alternano chiazze di piante di giovani a boschi millenari, piante sanissime, con altre oramai irrimediabilmente deperite,
boschi misti con varie essenze e boschi quasi monospecifici di araucaria o notofagus. Alla fine arrivo al grande lago vulcanico Conguillio da cui la riserva prende il nome.
Lo zaino con le corde, imbraco, e tutto il resto dell’attrezzatura, pesa oltre 30 kg. Non sono più abituato. Faccio fatica a camminare, mentre il sentiero sale, nella mattina umida che si alza. Mi avvolgono le mille ombre scure delle Araucarie miste ai coigue che gareggiano a chi è più alto.
Nel buio del mattino la foresta è completamente silenziosa. Ma non mette paura, anzi dà pace. Solo il mio passo pesante cade sulla soffice terra nera accompagnato dal respiro ancora affannoso. A un certo punto la foresta cambia ancora. Spariscono le Araucarie. Il sentiero si dipana tra canne di bambù intrecciate e insormontabili tra cui si stagliano i fieri tronchi dei nothofagus. A volte inclinati paurosamente, a volte diritti fino al cielo, alcuni ormai morti da tempo, si stagliano bianchi contro la volta celeste ancora scura. Sono veramente alti e imponenti. Mi ricordano al tempo stesso i grove californiani di sequoie giganti (Sequoiadendron giganteum) e l’eternità del tempo avvolta nei rami dei pini millenari delle White Mountains (Pinus aristata varietà longaeva, gli alberi più vecchi del mondo).
Non faccio nemmeno a tempo a realizzare questa idea che mi pare di intravederla tra i grossi fusti
dei coigue. Non c’è dubbio. Ancora due passi. E’ Lei. Il grosso fusto sale diritto e spoglio per
una
trentina di metri, poi, stranamente per questa pianta, prima una grossa branca, poi una seconda, si
dipartono dal fusto a formare due punte codominanti, che però non raggiungono l’altezza della cima
principale, molto più in alto. La vecchia Madre acuminata è lì davanti a me. Imponente. Ma la
sensazione
non è di paura. Piuttosto di rispetto. E, guardando l’enorme albero, osservando la sua impensabile
architettura subito diventa chiaro che sarà quasi impossibile scalarla.
Ma sono arrivato fin qui dall’altra parte del mondo. Lancio comunque il mio sagolino. Un lancio. Il
sacchetto passa preciso, con un lungo sibilo, tra il fusto e il ramo. “C’è!” Corro prendo la corda, poi
cerco il sacchetto giallo con appeso il filo guida. Non lo trovo. Guardo in alto. L’attrito lo ha fermato
alcuni metri sopra di me. Cerco di farlo scendere con alcuni strattoni sul lato opposto. La corteccia fa
resistenza, e per lanciare in alto ho usato un sacchetto poco pesante, solo 250 gr. Ma la fortuna, o la
Grande Madre, mi aiuta. Il sacchetto scende. Lo prendo. Lego la fune e la faccio passare al posto del
sagolino guida. Prendo uno spezzone di 10 metri e preparo l’ancoraggio alla base. Tutto preciso, veloce,
quasi troppo perfetto. Metto imbraco, casco, guanti, occhiali, go pro sul casco per filmare. Attacco
maniglia e croll. Tiro. La corda non va in tensione. Tiro di nuovo. Appunto, tutto troppo preciso. Nella
fretta ho scordato di legare la fune all’ancoraggio! Per fortuna non è salita troppo e riesco a
recuperala e posso iniziare la salita. In poco tempo guadagno il primo ramo.
Grazie ad una seconda punta di sostituzione riesco a mettere la longe e a issarmi sopra il punto di
ancoraggio. Sono in piedi sul
primo ramo a 24,07 metri.
Guardo attorno. La foresta mi mostra i suoi alberi più vecchi e maestosi, gli intensi colori autunnali
sono mescolati al verde scuro delle foglie del drago.
Gli altri rami sono irraggiungibili da qui e non si può lanciare il sagolino.
Scendo e osservo ancora il gigante. Lo ringrazio per l’onore che mi ha reso.
Poi misuro la circonferenza: esattamente 6,57 metri. Il cartello vicino alla base del poderoso fusto riporta alcuni dati
abbastanza arrotondati ma facili da ricordare per tutti i curiosi. Dice che ha oltre 1.800 anni, che è alta 50 metri
e che il fusto ha un diametro di 2,10 metri. Quindi l’apice avrebbe un accrescimento medio pari a 2,7
centimetri all’anno. Eppure io ricordo che mio padre, quando ero ancora bambino, mi indicava le piccole
piante spinose di araucaria del vivaio e mi diceva: “Vedi? Crescono solo un centimetro all’anno”.
Vicino all’Araucaria Madre, c’è un coigue di dimensioni considerevoli. “Se mi arrampico lì e riesco a
salire fino in cima posso misurare molto bene anche l’Araucaria".
Lancio il sagolino e il primo tiro arriva altissimo, oltre i 30 metri, su una forcella perfetta. Peccato non ci sia verso di farlo scendere a
causa dell’attrito. Riprovo con un sacchetto di peso maggiore: quello di 350 grammi. Un nuovo lancio. Anche
questo molto alto, quasi quanto il primo, ancora una volta una buona forcella. Ma non c’è verso di far
scendere quel dannato sacchetto giallo. Provo molte volte. I lanci diventavano sempre più bassi. Il
braccio comincia a pesare. Sto quasi per rinunciare ma con un ultimo tentativo prendo un grosso ramo a
oltre 20 metri. Non è l’ideale, ma il sagolino scende fino a terra. Posso installare la corda. Preparo
tutto. Il sole oramai si è alzato parecchio.
Guadagnando un ramo alla volta, alterando corda e longe, arrivo fino alla cima. L’Araucaria Madre, sacra al popolo Mapuche,
si innalza ancora sopra di me di molti metri. Ma dalla punta del “coigue” posso studiarla molto
bene. Sono più in alto delle sue punte di sostituzione cresciute sulle branche principali. Conformazione
veramente inconsueta per una araucaria. Evidentemente, a un certo punto, come in quasi tutti gli alberi,
la cima
perde la sua dominanza e i rami inferiori costruiscono le proprie cime “alternative”. Ma prima credevo che
su questa specie, la reiterazione delle cime non avvenisse.
Nei giorni seguenti ho avuto molte conferme su questo fatto. Le piante più vecchie utilizzano questo
sistema per “ringiovanire” e apportare nuova linfa ai tessuti sottostanti. In queste piante, le gemme
avventizie rimangono “silenti” anche per qualche centinaio di anni e si risvegliano solo quando la gemma
principale rallenta fortemente la sua crescita. Misurando le “candele” secondarie e il cimale principale,
si può perciò avere un’idea più precisa dell’età reale della pianta che non valutando solo le dimensioni
del fusto alla base.
Mi sono fatto perciò l’idea che l’età che gli avevano attribuito sul cartello posto vicino alla base del
fusto potesse essere addirittura superiore a 1.800 anni, mentre invece l’altezza, misurandola dalla cime
del coigue, risultava un pò inferiore ai 50 metri che le erano stati attribuiti. Infine ho raccolto
tutti i dati e i rilievi che dalla cima del coigue potevo effettuare, ho scattato foto e ripreso i
particolari delle lunghe epifite che riempivano la chioma, i rami e buona parte del fusto e alla fine sono sceso
ringraziando anche il grande coigue che mi aveva ospitato. Felice.
Non avevo scalato la Araucaria Madre, ma ci ero salito, l’avevo misurata e avevo arrampicato e
misurato anche il grande Nothofagus che le cresceva a fianco. Camminavo sul sentiero tra due muri di scomposto
bambù (Cusquea culeou), guardandomi attorno e ammirando i grandi esemplari di coigue che,
con i primi rami oltre i 30 metri creavano la volta della foresta.
A un tratto qualcosa però attirò il mio sguardo. Qualche centinaio di metri all’interno del bosco due
immense araucarie sbucavano scalando il cielo, troneggiando sopra tutti i nothofagus presenti. Non ci
pensai neppure un attimo. Mi buttai tra i bambù per raggiungerle, con l’intento, naturalmente, di
scalarle. Erano lontane dal sentiero ma ben visibili.
Avanzare tra quel canneto infernale non era certo la cosa più semplice. Non capivo in che modo ma moltissimi cauli (fusti) del bambù crescevano nelle direzioni più disparate, creando un reticolo inestricabile all’interno del quale i piedi venivano costantemente intrappolati. L’avanzata verso le due araucarie gemelle fu perciò lunga e difficile. Anche il pesante zaino si impigliava nei bambù e così pure il manico di scopa che mi ero portato dietro come “succedaneo” dello svettatoio, attaccandogli un uncino sulla parte terminale per poter recuperare la corda.
Mi sembrava quasi facile scalare almeno una delle due, anche se era impensabile lanciare il sagolino. I bambù, alti più di due metri, avrebbero carpito il sottile spago avvolgendolo in mille spire attorno a tutte le infinite foglie. Non avevo nulle per poter creare un posto “pulito” da dove lanciare, l’unica alternativa era salire “a strozzo” con la longe e con la corda. Provai prima di tutto a vedere se la longe era sufficientemente lunga. Cinque metri, più il mio bacino. Certamente strettina all’inizio ma ce la potevo fare. Feci un tentativo per salire solo così ma non riuscivo a far saltare la longe che si impigliava tra le grosse “tacche” della corteccia mentre io invece scivolavo con gli scarponi. Sorrisi. Avevo pensato a tutto. Tolsi dallo zaino due piccoli ramponi da ghiaccio, quelli che si mettono tra il tacco e la suola, giusto per non scivolare. Mi sentivo furbo mentre li indossavo. “Non faranno nulla alla pianta, la corteccia è spessissima e mi servono solo per non scivolare, non dovrò neppure spingere”. Ma quando provai a salire mi accorsi che era impossibile. Le punte dei ramponi sotto le suole mi obbligavano a una posizione delle gambe a dir poco impraticabile, non miglioravano l’aderenza e staccavano grossi pezzi di corteccia. Dopo i primi 3 o 4 passi scesi capendo quanto stupido e presuntuoso ero stato.
Ma il ritorno, non più sospinto dal desiderio di conquista, sembrava molto più faticoso dell’andata. Inciampavo a ogni passo, le canne si infilavano ovunque nel loro scomposto modo di crescere. La pioggia cadeva sottile. Per fortuna dovevo arrancare solo per qualche centinaio di metri. Eppure sembravano interminabili. Lo zaino mi sbilanciava e rischiavo di cadere ad ogni passo. Anche la scopa-svettatoio si impigliava ovunque. Ero quasi tentato di lasciarla tra le canne. Ma il sentiero doveva essere vicino. Bastava un po' di pazienza. Passò il tempo tra passi lenti e impacciati. “Ma quanto manca a quel cazz..di sentiero? Avrei già dovuto incrociarlo”. Non sapevo quanto avevo camminato tra il bambù ma solo a quel punto mi volsi a cercare le due araucarie gemelle. Sparite. Avvolte dalla foresta.
Coige Abuela Jolanda
Tirai il piede forte, il bambù non si ruppe, improvviso caddi, lo zaino arrivò con i suoi 30 chili sulla
mia testa schiacciandomi ancor più al suolo. Disteso tra il bambù con la faccia immersa nella terra.
Immagine della più totale sconfitta. Disteso ai piedi dei Draghi. Tutti attorno. Un senso di smarrimento e
vuoto alla gola. Guardai uno spuntone di bambù poco lontano dal mio occhio sinistro. Solo per pura fortuna
non me lo aveva centrato. Mi rialzai. Vacillando. Come le mie certezze. E ripresi ad arrancare. Ferito
nell’animo. Del sentiero neppure l’ombra. Avevo già vagato per più di un’ora tra i bambù dell’enorme
foresta. Dovevo accettare la realtà. Mi ero perso.
“Non c’è altra soluzione. Devi scendere a valle, trova un torrente, arriverà sicuramente al lago. Trovato
il lago sei arrivato.” Mi pareva ragionevole. Avevo ancora alcune ore di luce davanti. Avevo camminato
un’ora in salita sul sentiero per trovare l’Araucaria Madre. Considerando di camminare tra i bambù,
in tre
- quattro ore potevo farcela. Naturalmente se consideravo lo zaino, la stanchezza e la pioggia poteva
andare anche molto peggio. Il mangiare e il bere pensavo non fossero un problema. Un giorno e forse una
notte potevo anche resistere senza. Ormai dovevo prepararmi al peggio. Camminavo con meno rabbia, stando
più attento, non sprecando energie, cercando di non cadere. Nessuno mi avrebbe cercato. Prima cosa:
non
dovevo farmi male.
Non dovevo cadere. Una gamba rotta ed ero finito. Ero indeciso se lasciare lo zaino e il bastone. Ma
qualcosa dentro mi diceva che mi sarebbero serviti entrambi. Sbuffavo, a volte bestemmiavo, ma non ero
arrabbiato. Ero concentrato. Come quando salivo sugli alberi e tutto il resto del mondo spariva. Non
avevo pensieri. Solo l’attenzione totale a tutto ciò che avevo attorno, a tutto ciò che pestavo, a come
mettevo i piedi, le mani. Scivolai più volte. Ma riuscii sempre a non cadere. Cercavo un torrente.
Con gli occhi, l’udito, perfino col naso. Da quando avevo preso coscienza di essermi perso era già passata un’altra
ora abbondante. Ad un tratto vidi un enorme tronco caduto, steso lungo un pendio, poi più avanti un altro.
Stessa direzione di caduta. Non c’era acqua. Ma sicuramente, quando c’era, passava di lì. Seguii il tronco
morto. Poi, con fatica, ci salii sopra. “Almeno qui non ci sono i bambù” pensai. Ma era viscido
quanto bastava per farmi piombare a terra. La mia scopa-svettatoio divenne allora preziosissima.
Puntandola sulle asperità della corteccia fori mi teneva in piedi. Seguivo i grossi tronchi caduti, passando ora sopra
l’uno ora sotto l’altro, sempre attento a non cadere, tastando il terreno con la mia scopa-stampella per
evitare buchi nascosti da muschio o da legno marcio. I bambù a volte continuavano a impedirmi il cammino
ma più spesso ora erano miei alleati. Mi tenevo con una mano sui loro fusti forti e flessibili per
scendere tra i sassi in mezzo ai tronchi caduti sempre più numerosi. Lo zaino spesso mi sbilanciava,
allora la scopa-bastone diventava molto utile per ridarmi equilibrio. A volte ne usavo la parte uncinata
per raggiungere un appiglio o piegare un giunco per poi prenderlo.
E finalmente ecco l’acqua! L’avevo annusata e ora seguendo il torrente potevo arrivare finalmente
al lago.
Non fu affatto facile e corsi comunque parecchi rischi, ma a tarda sera comunque arrivai distrutto ma
sereno al nostro pick up.
Negli altri parchi c’erano comunque altre grandi araucarie. Le volevo misurare per vedere se veramente
l’Araucaria Madre era la più grande del Cile. ma chiedendo informazioni ai guardia parchi, ma come al
solito, ognuno di loro era convinto di avere nel suo parco le araucarie più alte e più grandi di tutto il
paese.
Continuai così le mie ricerche camminando nelle varie foreste. Riuscii a trovare il Coigue più grande che
avessi mai visto, poco lontano dalla cascata del Trufulco. Il più grosso Coigue misurato fino ad allora
arrivava ad otto metri di circonferenza, quello che avevo davanti ne misurava più di nove per oltre
quaranta metri di altezza e per ora rimane il più grosso Nothofagus misurato al mondo. Lo battezzai col
nome di "Lord of the Forest". Ne trovai anche uno altissimo, di oltre 56 metri. Pensando a mia nonna,
che di certo mi aveva protetto quando mi ero perso nella enorme foresta della Araucaria Madre, lo chiamai
Abuela Jolanda. Ad oggi, anche se mia nonna era una donna minuta, rimane il coigue più alto del mondo.
Misurai moltissime altre piante di Araucaria e coigue, vagando nei vari parchi ma proprio in cima a una
montagna sopra il lago Herqeuque, finalmente scorsi il mio Drago. Da lontano la chioma aveva più punte
che si distribuivano a raggiera amplificando l'enorme chioma. E quando mi avvicinai scoprii il suo fusto
enorme. Era l’araucaria più alta misurata in Cile fino ad allora: 54,30 metri con una circonferenza di
5,49 centimetri. Il suo nome non poteva che essere The Dragon.
Non avevo portato l'attrezzatura per poterla scalare. Ma mi sedetti a guardarla a lungo. Con un'emozione
mista di tenera tristezza. L'avevo trovata, l'avevo osservata nel suo immobile ergersi sulla cima della
montagna ma non avrei potuto scalarla. Avevo passato tutto il giorno a scarpianare, misurare, fotografare
araucarie e tanti altri alberi. A quel punto, mi sentivo veramente stanco. Già imbruniva. Dovevo ancora
ritrovare il sentiero per ridiscendere e un senso di angoscia si spandeva in me. Ripensando a quanto mi
era successo solo due giorni prima mi vedevo già sul sentiero sbagliato e a dover passare la notte nel
freddo autunno andino.
Mi imposi di non misurare più nulla e di camminare spedito verso il campo base. Ma a un certo punto mi
girai e la vidi. Anche da lontano il suo tronco era enorme. Quando fui vicino mi accorsi dalla base del
tronco partivano due fusti (pianta policormica), uno molto più grande e uno secondario, nato probabilmente
da un pollone radicale e poi concresciuto con il principale. Fatto certamente inusuale per queste piante.
L’altezza era di soli 42 metri ma la circonferenza risultava incredibile: 7,32 metri! Anche se
policormica
era la prima Araucaria di queste dimensioni che veniva misurata. La battezzai “The sisters” e
finalmente
rientrai alla base.
La sera studiai il percorso per il giorno dopo. Qualcosa mi attirava inspiegabilmente a tornare dalla
prima araucaria che avevo incontrato sullo strapiombo nel parco del Conguillio. Una parte di me mi diceva
che la potevo scalare, che ci potevo riuscire, un’altra parte mi diceva che avevo già avuto l’onore di
arrampicare la vecchia Araucaria Madre anche se non ero arrivato in cima, avevo avuto la fortuna di la più
alta, il mio Drago, identificare alcune delle più grosse e misurare anche il eccezionali Coigue. Mi potevo
accontentare. Dopo tutto nessuno mai era nemmeno arrivato dove io ero salito.
E poi dovevo andare a visitare ancora un parco, quello di Tohuaca. Chissà cosa avrei trovato.
Ma quando decisi di tornare indietro, nello stesso posto dove ero già stato, cosa che non avevo mai fatto
in nessuno dei miei precedenti viaggi, quasi fosse una regola non scritta, sapevo che c’era un motivo,
un richiamo assoluto. Quel gesto andava fatto. Dovevo tornare all’inizio del viaggio.
Quando, dopo molti chilometri di strada bianca fermai la jeep perché improvvisa apparve Lei tutto
improvvisamente fu chiaro. Capii perché qualcosa, qualcuno, chiamandomi nel vento limpido e sottile della
sera, aveva voluto farmi tornare indietro. Non dovevo tornare all'inizio. Dovevo solo tornare indietro per
vedere Lei. Per accorgermi di Lei. Perché quando ero passato la prima volta semplicemente non si
poteva vedere arrivando dalla parte opposta, da quella prospettiva. Fatto sta che ora, salendo la strada bianca
per tornare indietro me la ero trovata proprio davanti. Nel mezzo di un prato. Diritta. Isolata.
Più indietro un intero bosco di araucarie, tutte più basse, quasi la metà. Non ne avevo mai vista una così
grande completamente isolata. Cresciuta in un prato, praticamente pulito. Sembrava addirittura dolce nei
suoi aghi appuntiti. Slanciata e fiera. Isolata dalle altre. Come una giovane regina, conscia della sua
bellezza e del suo fascino. Non aveva un fusto enorme. Non sembrava altissima. Ma chiamava me. Dolcemente.
Insistentemente. Caparbiamente. Mi aveva fatto tornare indietro per poterla ammirare da lontano. Nel suo
vestito verde smeraldo che luccicava sul far della sera.
I rami arcuati, lunghissimi, verdi brillanti sotto il sole che già cominciava a scendere. La chioma
perfetta. E un fatto incredibile: in mezzo a un prato! Si poteva lanciare il sagolino. Si poteva
almeno
tentare, vedere se poi scendeva.
I 3,65 metri di circonferenza ne facevano comunque un esemplare di tutto
rispetto. Preparai l’attrezzatura. Erano già passata le quattro del pomeriggio ma stranamente non
avevo
fretta. Preparai due longe, i guanti, il copricollo, l’imbraco. E per ultimo presi il sagolino. Tirai.
Uno, due, tre tentativi. Non male come lanci, il sagolino passava alto tra i rami ma poi il peso non era
sufficiente a farlo scendere. Il sottile filo si irretiva tra le foglie e già era stato un miracolo
riuscire a recuperarlo. Guardai meglio la pianta girandoci intorno, cambiai posizione di lancio. Dovevo
passare in uno spiraglio pulito da rami secondari e sperare che poi il sagolino riuscisse comunque a
scendere. Lanciai ancora. Non ero affatto in ansia come mi era capitato altre volte. Ero quasi certo
che sarebbe “entrato” nel posto giusto. Infatti un lancio altissimo e preciso, prese il ramo migliore
possibile e il sagolino scese quasi fino a metà pianta. Lo mossi facendolo un po' saltare. Piano piano il
sacchetto giallo scendeva. Quando lo vidi a terra provai una gioia incontenibile.. Attaccai la corda,
poteva ancora succedere di tutto. Tante altre volte, su piante meno complicate, si era rotto il filo guida
o la corda non riusciva a passare a causa di chissà quale incredibile piccola incrostazione della
corteccia. Ma stavolta sapevo che potevo farcela. Mi misi a tirare fino al momento in cui la corda deve
scavalcare il ramo e prendere il posto del piccolo filo che serviva da guida. Il momento più delicato.
Respirai e poi tirai. La corda si bloccò improvvisamente. Qualcosa non la faceva passare. Allentai un po'
il filo poi riprovai più velocemente. Passata! La fune era passata! Ora dipendeva tutto solo da me.
Misi l’imbraco e tutta l’attrezzatura. Mi avvicinai al Drago-Principessa e toccai la sua pelle ruvida e
squamosa. Poi come un vecchio cavaliere mi inginocchiai e le chiesi il permesso di salire. I guanti, cui
non ero avvezzo, essendo abituato a lavorare senza, mi impedivano i movimenti. Gli occhiali si appannarono
quasi subito. Ma dovevo assolutamente proteggermi se volevo arrivare in cima. Guardavo le lunghe braccia
irsute della pianta e non avevo paura. Quando si trattò di infilarmi tra i primi rami, carezzai le foglie
spinose, ruppi un vecchio rametto secco e quasi senza difficoltà guadagnai il passaggio. Salendo tra i
rami ero costretto a muovermi come un serpente. Infatti più si saliva più fitti i rami diventavano. Ma in
un tempo inaspettatamente breve ero già sotto la cima. L’ombrello di rami spinosi divenne allora quasi
inespugnabile. Avevo l’apice a un soffio ma non potevo arrivarci. Gli ultimi rami, completamente coperti
di foglie-squame verdi, erano assolutamente privi di elasticità e non si spostavano nemmeno di un
centimetro. Rigidamente proteggevano il cuore principale e millenario del Drago-Principessa. Avevano
ragione loro. Lì non dovevo andare. Ma volevo però almeno vedere. E non so se venne a me l’idea o se me la suggerì direttamente la pianta:
Ero a poco più di un metro di distanza da una gemma che da centinaia di anni non aveva mai smesso di
crescere. Attorniata e protetta dai rami secondari, già pieni di coni e di semi, continuava a crescere di
pochi millimetri all’anno, da sempre, inesorabilmente. Una piccola gemma incastonata in una corona di
spine verdi.
La continuavo a guardare emozionato, come pochissime volte mi era capitato. Non un Drago, non un drago
avevo scalato, bensì una Principessa. Una Principessa mi aveva concesso l’onore di vedere la purezza del
suo cuore. Non so per quanto tempo stetti a osservarla. Lei e tutto ciò di cui faceva parte, oppure Lei e
tutto il suo regno. Poi scesi. Raccolsi le mie cose. La guardai ancora a lungo. Non avevo nemmeno un
graffio. E io non le avevo rotto nemmeno un ramo verde.
Finalmente mi decisi a salire in auto. Partii imboccando una strada nuova. Non avevo sconfitto il Drago.
Non ce n’era stato bisogno. Il Drago mi aveva accolto, con la dolcezza e la timidezza di una Principessa.
Avevo completato la mia missione, Lei l’aveva reso possibile.