di Luigi Delloste
Era tempo.
L’inverno premeva sull’aria di quel giorno che insieme alla luce, sempre più avara, si adagiava mollemente attorno al luogo dove la collina sovrastante pareva innalzarsi ogni momento di più. La nebbia, prima timida e fugace, ora colmava tutte le parti tristi della piana, le riempiva e sostava morbida, senza fretta, mossa solo dagli occhi che già conoscevano ciò che stava dietro al suo velo.
Passando in quelle occasioni per quei luoghi si percepivano odori meno impulsivi e il fresco e l’umido della stagione scendevano in cuor proprio ad ogni passo. I colori ora mutevoli proseguivano la loro corsa accelerando in quelle foglie chine e sommesse pronte a scendere per l’incanto del distacco autunnale, del saluto, del giungere alla padrona di ogni cosa, del tempo. Alcuni passeri, staccandosi veloci, sfiorarono la siepe di pruno e il loro sfarfallio di ali frettolose mi colse nel torpore dell’attimo, e qui, quasi fosse stata provocata da quelle piccole ali, la brezza salì dapprima lieve poi tesa, liscia e fresca. Accompagnandomi ancora una volta a vedere quel tronco di dove in tanti anni passati si era transitato. Di tempi andati, di prima, lì, fermo e risoluto, immobile nel suo destino di saccente a osservarmi ancora dall'alto dei suoi rami, della sua chioma.
In quella presero i ricordi a farla da attori e nel turbinio del momento, appoggiato al mio bastone, con la bocca aperta per ricevere meglio le nostalgie del luogo, sentii quelle voci, i discorsi, i richiami e le fatiche di anni e anni addietro, quando io, da spettatore ancora imbelle, assistivo alla posa di quell'albero.
Ecco, lo scavo con quelle pareti compatte, dure, tenaci ancora umide e quasi raccolte nella loro più tenera e nascosta intimità dove l’aria pareva passare forse a controllare che tutto fosse in ordine secondo gli intenti. Quella terra ora messa a nudo era in soggezione davanti ai nostri occhi perché i suoi colori non erano quelli di superficie, quelli di tutti i giorni, erano tinte nascoste e protette, in uno scrigno occultato dal sole e dagli occhi profani. Lo scavo doveva accogliere quell'alberello curioso, strappato a forza da un altro destino, terra, luogo, quel virgulto pieno di fantasia e vivacità il cui futuro era solo la propensione verso l’infinito, verso il sempre dell’aria. L’abbraccio al cielo.
Ora lì, fermo e ferito, quieto, ancora vivo e con indosso tutte le speranze di noi umani che in lui vedevamo l’ombra, i frutti, il legno il sacrificio al lavoro e la vita insieme. Quell'alberello che unitamente a tanti altri rappresentava una vivida speranza di lavoro e ricchezza, di calore negli inverni freddi e tavole per il desco e porta chiusa ai problemi.
Lì attendeva il momento importante senza sapere nulla del resto.
Così ad un certo punto quelle mani forti lo presero, lui, leggero, per sistemarlo all'interno della terra, ora delicatamente e con rispetto, quando la cantilena del buon auspicio permeava l’insieme. Ritto e con gli altri, verso il calare della sera di quel giorno faticoso, pareva un soldatino, immobile, in attesa degli ordini.
Poi, i giorni, le settimane, l’ansia dei temporali quando il vento sferzante e la grandine stracciavano la paziente crescita nell'ottimismo della natura. Giungeva il dito nella piaga, quegli strani esseri molli ghiotti di legno, la carrozza che sbandava, il nitrito dei cavalli, il colpo alla corteccia della dura ruota che ciondolando si rimetteva in carreggiata. E ancora vento, forza e mistero con la neve leggera e morbida, con il ghiaccio severo e rigido. Dopo giunsero gli uomini armati e quel filare si dimezzò, metà di loro furono portati via per altri fini, senza radici. Molte voci si spensero, e di lì, da quei nuovi spazi l’aria circolava libera a controllare. E ancora anni passarono in quel meraviglioso luogo di sempre, mai visto così bene perché di passaggio, troppo futile per essere considerato appena. E con gli anni anche la guerra, altro freddo, la legna che mancava, e i grandi e forti che se ne andavano per la sopravvivenza di altri piccoli e deboli.
Perché la natura del tempo, al contrario, voleva i più forti e qui il più piccolo e brutto rimaneva, quasi come se si fosse data ancora un’altra possibilità, un’alternativa insomma, a crescere ancora un po’… Fu così che il tempo tiranno era in questo modo diventato gentile e cortese, serviva i piatti affrettati di prima in modo meno scontroso e non batteva più i piedi in preda all’ansia.
Tutto ora si giocava con questi pochi compagni superstiti di quel viaggio infinito di statuaria immobilità, in un luogo così in movimento, come nei campi fioriti nel crescere delle messi, nelle forme rutilanti dei cespugli spontanei così monelli e sfacciati. Poi, ancora temporali, rami rotti, bufere che premevano il peso della vecchiaia e il picchio che cercava cibo con il becco aprendosi la strada in quelle viscere indebolite. Ma, alla fine, tutto il peso non si poté più sopportare e anche gli ultimi fratelli maggiori finirono per cadere in quel fragore di legno marcio che sapeva di funghi, per salutare la strada di tanti chilometri percorsi insieme.
Quell'albero ora era solo e non più uno fra tanti, risplendeva del suo fracasso di ossa nude nella più grande considerazione, fosse mai, per chissà quale ragione, a lui stesso dedicata. Quale logica mai potuta immaginare, e, se prima valeva qualcosa, ora il suo valore non era più calcolabile e tutti lo osannavano come storia del luogo. Molti, ispirandosi a quelle forme, alle sue forme, dipingevano gli affanni del corpo come paragone dell’efferata bellezza del posto, della campagna, della natura.
Ora quell'albero rappresentava la massima autorità, e ogni sua parte era la soluzione che tutti noi cercavamo da tempo ai nostri problemi, perché rimasto a dispetto del tempo.
Il consiglio del saggio,
la carezza del genitore,
il sorriso dell’amico.
Quella mano tesa nell'istante del saluto.
Testo e fotografie di Luigi Delloste