Sebastian manovra per attraccare, ma il motore si blocca. Qualcosa impedisce all’elica di girare. Dobbiamo sollevare il motore. Nella manovra in retromarcia la corda di prua si è impigliata sull’elica arrotolandosi su di essa. Non è facile raggiungere la fune senza cadere nel lago. Luis prova da un lato ma non ci riesce, io mi faccio tenere col braccio sinistro da Paolo e mi sporgo sulla poppa a liberare la fune col destro. L’acqua è gelata ma riusciamo a liberare l’elica senza danni. Sebastian riprende la manovra di attracco avvicinandosi a un grosso tronco di coigue caduto sulla riva del lago. Disinfettiamo le nostre scarpe con un apposito spray in grado di uccidere il 99% dei batteri e dei funghi in maniera da non infettare con parassiti nuovi portati da lontano un luogo incontaminato come questo. Luis è il primo a salire sul tronco caduto io lo seguo subito dopo e ancoro la fune a un grosso ramo spezzato. Risaliamo il grande fusto scivoloso e finalmente poggiamo i piedi nella terra degli alerce. Improvviso, mentre il mio piede sprofonda tra muschi, felci e soffice torba, un forte odore, buonissimo e dolce, mi assale. È l’odore della terra intonsa. L’odore di un tempio dove l’uomo non cammina da secoli.
L’odore dove la Natura regna sovrana e si veste dei suoi abiti più belli profumandosi dell’odore del sole. “In the last one hundred years we are probably into the ten people that arrived here” ci dice Luis.
Considerando che noi siamo già in quattro, stiamo praticamente entrando in un luogo sacro e inaccessibile all’uomo quasi più che la cima dell’Everest. Non so letteralmente dove mettere i piedi. Ma quando vedo l’immensa pianta davanti a me quasi non resisto e corro a toccarla, con un gesto forse inconsapevole appoggio la mano sulla sua corteccia e alzo gli occhi verso l’alto, scorrendo pian piano la rugosa corteccia fino ai primi rami, poi oltre sempre più su, seguendo le suddivisioni del fusto fino a raggiungere l’ultimo ramo attaccato al cielo. “The biggest is there” rimbalza il suono della voce di Luis nel silenzio immobile della foresta. Guardo avanti, nella direzione indicata. A una trentina di metri, un altro alerce si innalza poderoso verso il cielo. Era sua la punta che troneggiava sulla foresta e che si vedeva dal lago. Salto tra i finti bambù, anche qui tutti secchi dopo aver fiorito, affondo nella soffice terra che rilascia il suo odore miracoloso e arrivo dalla seconda pianta. Imponente il fusto enorme sale verso il cielo. Il muschio ne ricopre la base fin quasi a farlo uno e scomparire nella terra. Verso l’alto si divide in due grosse branche, una schiantata, cava, con alcuni getti nuovi di cent’anni almeno, l’altra che ha perso l’apice molto più in alto, ristrutturandosi in una mano con dita che anelano al cielo, aprendosi in una coppa vogliosa di neve, di acqua di vento e di gelo. Una mano che sorregge il cielo, da oltre mille anni. In mezzo alla foresta. Una mano dove Dio siede a parlare coi pesci, guardando la neve e odorando la terra. Pensando che aveva proprio fatto un bel lavoro quando aveva inventato Gaia.
È una foresta primordiale, quasi nessun animale di grandi dimensioni è presente, solo uccelli, pesci e qualche roditore, insetti e funghi. Neppure il puma, se non molto saltuariamente arriva da queste parti. Il freddo, i grandi laghi e i ghiacciai hanno mantenuto quasi completamente isolati questi boschi. La vita vegetale è la sola che da migliaia di anni continua con successo ad abitare queste lande fredde e inospitali, percorse da un vento battente, continuo e gelato che neppure le grandi masse d’acqua riescono a mitigare. Col loro aspetto di giganti eterni e bonari, gli alerce sono i padroni e i buoni padri di queste terre, troneggiando sopra le acque con i loro incredibili fusti muschiati.
Sopra un piccolo promontorio poco distante, intravedo un altro alerce. Più giovane, imperioso, completamente diritto e si può intravederne la punta. “In altezza potremmo provare a misurare quello” accenno guardando Luis e Sebastian, e poi a Paolo che sta filmando ancora il primo alerce sul lago “prendi il laser e la cordella metrica sulla lancia per favore”. Il vento contrario ci ha fatto perdere molto tempo nella risalita del lago e non abbiamo molto tempo. Cerco di creare un canale visivo tra le due piante per poter effettuare le misure col laser togliendo le canne secche di bambù ma mi accorgo che Sebastian è contrariato da questa operazione, quasi che anche toccare un singolo rametto secco fosse già un sacrilegio in quel tempio sacro della natura.
Diminuisco allora l’impeto con cui procedo, ma non è sufficiente ad evitare che Sebastian si ritiri sulla lancia ad armeggiare con l’attrezzatura quasi per non vedere. Puntare il laser alla base e sull’apice dell’alerce non è comunque impresa facile. Più volte i dati sono sballati poiché il fascio luminoso probabilmente intercetta altre foglie o rami sul suo cammino. A un certo punto vedo Luis che prende la bindella metrica e con un rametto in mano conta i suoi passi, mi si avvicina e traguarda la cima col rametto in mano. “Quarenta metros de altura. Metodo scientifico Arghentino!” E mi sorride sornione. Riprovo “35 metri e 60 centimetri. Metodo scientifico internazionale” “Menos de chinques metros de error. Metodo Arghentino nella norma”. Ridiamo nella foresta umida e silenziosa, tra il sapore della terra e l’odore del legno millenario che si sfalda lentamente nei secoli rilasciando i suoi aromi e la sua imperturbabile energia. Mentre misuriamo la sua circonferenza noto una ferita d’ascia alla base del fusto. Il callo da ferita che si è formato indica che i colpi sono stati inferti più di un secolo fa. Guardo interrogativo Luis. “Come ti dicevo nel 1800 ci sono stati dei tentativi di utilizzo di questa foresta. Più a valle ho trovato delle ceppaie perfettamente conservate. Quello che vedi era una modalità di saggio delle piante. Con l’ascia saggiavano il legno alla base dei fusti per vedere come era all’interno e così evitare di lavorare inutilmente abbattendo piante con l’interno cavo o ammalato.
Questo albero evidentemente non è stato ritenuto adatto perché cariato all’interno, ma è sopravvissuto di almeno un secolo e mezzo a chi l’ha ferito e lo voleva abbattere” il grande alerce sembra quasi fiero nel sentire quelle parole e sembra innalzarsi verticale verso il cielo ancora di più. Misura oltre cinque metri di circonferenza. Mentre ricompare Sebastian ci avviciniamo al primo grande alerce che ci ha accolto sulla riva, una grossa branca è stata schiantata dal vento chissà quanti secoli fa, visto che a terra non se ne trova traccia, ma il fusto sale fibroso e striato comunque attirato dal cielo azzurro. La sua circonferenza è di otto metri e ottanta e la sua altezza, misurata in un secondo momento direttamente dalla lancia sul lago con in laser è di quasi 40 metri. Ci avviciniamo tutti e quattro alla pianta più grande, misuriamo più volte la circonferenza e i diametri. Il fusto a petto d’uomo raggiunge una circonferenza di 10 metri e 45 centimetri. Quasi quanto le sequoia sempervirens più grosse.