
È un po’ forse come sfuggire
di Luigi Delloste
Eppure abbiamo fatto di tutto, in qualche modo lasciato la tecnica operare per la sua principesca parte: l’albero che noi vogliamo è analizzato e protetto in ogni modo, compreso in ogni sua parte, salvaguardato su tutti i fronti, benvoluto e curato. E ciò fa parte di una cultura che si rinnova di continuo in un accelerato dinamismo che inizia a entrare a far parte del nostro tessuto ancora da plasmare: le generazioni future.
Quelle generazioni che crescono davanti a un video, non importa dove e come sia fatto e se faccia parte di un programma televisivo o di un pc o di un cellulare o ancora di una play station. Un video che contiene tutti i dati che noi vogliamo, immaginiamo, conosciamo e condividiamo con chiunque come assoluti. Come perfettamente adeguati alla nostra logica, che deve essere per forza globale, di tutti, comunque sia, anche del resto del regno animale, come così pure di quello vegetale. Ci stupiamo sempre perché “gli altri” non ragionino secondo i nostri canoni. Stiamo crescendo nella cultura della salvaguardia del bene prezioso quale è l’albero e paradossalmente in ogni modo ci allontaniamo sempre più dalla dignità e dal rispetto che doveroso e assoluto gli dobbiamo.
Solo pochi anni fa ci vantavamo di “potare” gli alberi in modo così preciso da lasciare filari tanto regolari da parer siepi raffinate, gentili e soprattutto gigantesche. Quell’ordine di cui tanto vantarsi per permettere a tutti di godere della precisione della fiducia che la linea retta infonde all’umano che l’osserva.
Ne andavamo decisamente fieri.

Così da commettere qualsiasi tipo di soggezione, dalla rimozione delle branche sporgenti (perché sporgenti…) al taglio raso sul tronco per escludere quel fastidioso pezzo in più che proprio di più (di ciò che serviva) sembrava essere. E quand’anche avessimo potuto li avremmo raddrizzati, con tiranti in cavi d’acciaio, oppure magari usando un’enorme pialla, così da smussare quegli spigoli troppo vivi e non morbidi, quei gomiti a casaccio, imbottiti di accumuli inutili di legno, che soprattutto vivo era. Quel legno che dopo la potatura serviva per le stufe, a scaldare gli animi davanti a una buona bottiglia di vino nel desco dei giorni più freddi. Poi, in un attimo di pietà ed emulazione medica, fummo in grado di diventare dei chirurghi, abili operatori slupatori pseudo dentistici capaci di “curare” e “rimuovere” il terribile male interno, quando la natura, da solo qualche milione di anni prima di noi, sapeva fare nella perfezione in tutto il suo immutabile silenzio. L’albero non concludeva mai la sua esistenza nei nostri cuori, si rigenerava ovunque e a dispetto del significato che lentamente si insinuava tra la pelle del cittadino e l’operatore, in qualche modo si “udiva” che qualcosa stava cambiando. Forse anche il colore della corteccia, la forma delle foglie, quelle grasse e grosse dopo un capitozzo severo, che belle: grassi bimbi felici dell’iconografia classica, corpulenti e capaci, ahimè solo nel nostro inconscio, di resistere ai patimenti e alle malattie più severe.

Ora saliamo con le corde e i cestelli per tagliare le imperfezioni, spinti da una ipocrisia senza limiti nella quale anche le piccole forbici sono la grande sostituzione delle motoseghe fumanti, inquinanti e insostenibili… Siamo noi umani che finalmente abbiamo il concetto della perfezione delle forme, certamente quelle belle e delicate per i nostri occhi pieni di falsità. Ma soprattutto lo imponiamo ai nostri schiavi, plasmiamo convinti di fare del bene a chi, l’albero, può solo insegnarci a vivere.
Era ben altro, fa parte delle fantastiche risorse “pensanti” di qualsiasi albero: la fretta di ricostruire ciò che non c’è più con poche ma estremamente allargate superfici fogliari in modo da accogliere/raccogliere quanta più luce possibile nell’intento di poter ricrescere ancora in tempo per il tempo rimasto. “Touch trees” diceva Alex Shigo, tocchiamo gli alberi per poter iniziare a conoscerli, per sapere qualcosa di più da loro, per poterli amare e volere con noi, questo alito zen sembrava fin troppo ovvio, eppure ancora oggi è così difficile da comprendere. Perché forti dell’infinita sete di sapere che induce l’uomo a scovare ogni dettaglio che lo circonda, il cui obbiettivo è essenzialmente darsi una ragione razionale, organizzata, scientifica, sostanzialmente logica ma indiscutibilmente umana, alla fine di ogni nostro passo ci separiamo sempre di più dal convenire quanto sia straordinario ciò che ci circonda. Sempre nella mia perfetta ignoranza in questa materia convengo che un boscaiolo di mille anni fa ne sapesse molto di più…

Solo l’urlo della motosega smorzava questa infinita poesia dei boschi che in qualche modo volevamo, vogliamo nelle nostre città, dove agogniamo alberi che somiglino ai loro simili cresciuti spontaneamente sotto un dirupo, aneliamo alberi che crescano come campanili nel piatto essere delle pianure. Vogliamo alberi dipinti, begli alberi che possano sfoggiare di loro le migliori pose in arte fotografica, firmata da autori celebri. Sfoggiano però solo dal nostro sguardo di fotografi, incatenati dalla nostra severa cultura che ci ha plasmato, e non dall’istinto del voler semplicemente cogliere. Sfoggiano per i nostri occhi che meravigliati osservano stupiti l’immagine così volutamente immaginaria, di cose mai viste nella realtà e che ci paiono infinitamente belle. Ma dopo, nelle nostre passeggiate, quanto siamo distratti! Non riusciamo a cogliere nulla di ciò che ci circonda e qui Marcel P. ha scritto: “Il solo vero viaggio, la sola immersione nella giovinezza lo si farebbe non con l’andare verso nuovi paesaggi, ma con l’avere occhi diversi”.
Vogliamo alberi in posti impossibili perché nella natura li vediamo vegetare in luoghi inaccessibili e qui facciamo il paragone che però mai potrà reggere. Pensiamo alle incredibili risorse che l’albero ci dona stando a stretto contatto con l’umano (servizi ecosistemici) trascurando quanto questa stretta vicinanza per esistere crei costi insostenibili per la terra appunto. Laddove la natura pare incerta e difficile e il faggio, piccolo e dolente dell’incombenza sua compagna, pur contorto ci osserva, esiste dignità, tempo e un’infinita sicurezza biologica e meccanica nel sistemare, nell’aggiustare ciò che serve per vivere. Da noi, in città non si può. Da noi si conserva tutto (la maionese nel frigorifero dura mesi ed è fatta con uova…), noi abbiamo il potere di conservare e procrastinare qualsiasi cosa, legno, carta, lettere, file, immagini, rumori, musica, sensazioni, volontà, desideri… abbiamo il potere di schiavizzare ciò che neppure ci pare schiavo, l’albero appunto.
Ambizioni, forza…
È nella nostra natura tutto ciò, non ancora e probabilmente mai nel processo dello stare insieme alla natura intorno a noi, così vicina quanto ancora oggi irraggiungibile.

Testo e fotografie di Luigi Delloste