Naturalmente me l'ero ripromesso. Avrei arrampicato anche un grande Nothofagus. E, guarda caso, proprio vicino all’Araucaria Madre, ce n’era uno di dimensioni considerevoli. “Se mi arrampico lì, anche se viene qualcuno, posso sempre dire che lo stavo misurando, o che facevo un servizio fotografico sull’Araucaria Madre, ma nessuno penserà che voglio scalarla. In realtà la pianta è abbastanza vicina. Se riesco a salire in cima posso misurare anche l’Araucaria e, eventualmente, vedere se si riesce a lanciare il sagolino da lì. Non si sa mai”.
Mi sentivo sereno e un po' compiaciuto di questa “furbata”. Lanciai il sagolino e il primo tiro arrivò altissimo, oltre i 30 metri, su una forcella perfetta. Peccato non ci fosse verso di farlo scendere a causa dell’attrito. Riprovai con un sacchetto di peso maggiore. Presi quello di 350 grammi. Un nuovo lancio. Anche questo molto alto, quasi quanto il primo, ancora una volta una buona forcella. Ma non c’era verso di far scendere quel dannato sacchetto giallo. Provai molte volte. I lanci diventavano sempre più bassi. Il braccio cominciava a pesare. Stavo quasi per rinunciare, ma con un ultimo tentativo presi un grosso ramo a oltre 20 metri. Non era l’ideale, ma il sagolino era sceso fino a terra. Potevo installare la corda. Preparai tutto. Il sole oramai si era alzato parecchio. Stetti in silenzio per sentire se arrivava qualcuno. Nascosi tutta l’attrezzatura che restava a terra.
Con un po' di fortuna, una volta in chioma, potevano anche non vedermi. Tanto tutti avrebbero guardato l’araucaria.
Salii veloce fino al ramo dove avevo posizionato la corda. Per salire più in alto avevo solo una longe, e non era abbastanza lunga per arrivare al secondo ramo. Dovevo usare la fine della mia corda. Un processo un po' macchinoso. Ma ero sereno. Avevo pazienza. E non avevo più premura. Guadagnando un ramo alla volta, alterando corda e longe, arrivai fino alla cima.
Sinceramente pensavo che la pianta fosse più alta. L’Araucaria Madre, sacra al popolo Mapuche, si innalzava ancora sopra di me di molti metri. Ma dalla punta del “coigue” potevo studiarla molto bene. Ero più alto delle punte di sostituzione cresciute sulle due branche principali. Conformazione veramente strana per una araucaria. Evidentemente, a un certo punto, come in quasi tutti gli alberi, la cima perdeva la sua dominanza e i rami inferiori costruivano delle proprie cime “alternative”. Ma credevo che su questa specie, questa reiterazione non avvenisse.
Nei giorni seguenti dovetti invece ricredermi. Le piante più vecchie utilizzavano questo sistema per “ringiovanire” e apportare nuova linfa ai tessuti sottostanti. Nel caso del Drago, le gemme avventizie erano certamente rimaste “silenti” per qualche centinaio di anni e si erano risvegliate, quasi a metà fusto, quando la gemma principale aveva rallentano fortemente la sua crescita. Misurando le “candele” avventizie e il cimale principale, si poteva perciò avere un’idea più precisa dell’età della pianta.
Mi feci perciò l’idea che l’età che gli avevano attribuito sul cartello alla base potesse essere addirittura superiore a 1.800 anni, mentre invece l’altezza, misurandola dalla mia postazione, risultava un po' minore. Raccolsi tutti i dati e i rilievi che dalla cima del coigue potevo fare, scattai foto e ripresi i particolari delle lunghe epifite che riempivano la chioma, i rami e buona parte del fusto. Poi salutai e ringraziai anche il grande coigue, naturalmente prendendogli le misure, e alla fine scesi.
Avevo appena finito di sistemare l’attrezzatura nello zaino che udii delle voci avvicinarsi. Tre giovani ragazzi arrivarono davanti all’Araucaria Madre. Un triplice “wow” rimbombò nel silenzio.
Mi caricai il pesante zaino sulle spalle e col cuore leggero e un grande sorriso li salutai e mi avviai per tornare al campo base.