di Marisa Sestito
Commentando Urban Nature, l’iniziativa del WWF che promuove la conoscenza della biodiversità in ambiente urbano, Valerio Magrelli ricorda l’antica funzione sacrale degli alberi:
…le prime chiese sono boschi, molti fra i primi Dei sono grandi alberi,
e proprio sotto un albero il Buddha storico ottenne il suo “risveglio”.
L’albero è insomma un simbolo totemico attivo in ogni tipo di tradizione.
(“Se le città hanno fame di alberi”, La Repubblica 15 ottobre 2017)
Possiamo continuare citando altre civiltà e altri alberi sacri, come il frassino degli antichi germani, la quercia dei druidi celtici, il tiglio degli slavi; e ancora il sicomoro sacro in Egitto e il pesco in Cina; oppure il fico, non solo albero del Buddha, ma talvolta identificato anche con l’albero della conoscenza della tradizione cristiana. Oltre al fico, gli esegeti biblici avanzano ipotesi legate al cedro, alla vite, al grano. In realtà, in Genesi, non è specificato il genere dell’albero che, imposto come pegno dell’obbedienza a Dio, tiene lontana la morte. Narra Genesi (2, 15-17):
Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Poi gli diede quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui tu ne mangiassi, moriresti”.
Per inciso, non essendo ancora stata creata Eva, l’ordine è rivolto al solo Adamo, e viene da pensare che forse, il non aver sentito direttamente la parola di Dio, renda la donna più indifesa di fronte alla tentazione. Ma tornando sulla natura dell’albero, è interessante notare come pur mancando in origine la sua identificazione, nell’immaginario biblico si sia insediato il melo
. Da un lato è stata sicuramente l’arte figurativa a giocare un ruolo determinante, in bassorilievi e dipinti che dal Medioevo in giù hanno ritratto Adamo ed Eva accanto a un melo: tra gli esempi possibili, mi limito a citare Paolo Uccello, Lucas Cranach il Vecchio, Rubens. Ma vi è anche un’altra possibile, più antica origine del predominio del melo, un’origine piuttosto inaspettata, ascrivibile a un errore di traduzione del latino malum, che può significare sia male sia melo.
La natura dell’albero viene indicata in modo piuttosto singolare da John Milton, straordinario poeta ed eterodosso interprete della Bibbia. Nel Paradiso Perduto infatti, il poema epico del secondo Seicento, il poeta sdoppia la scena della trasgressione. Nel V libro su un piano onirico e sensuale situa il primo incontro tra predatore e vittima, portando Satana, penetrato nel corpo del rospo, a sussurrare all’orecchio di Eva addormentata; tentando di recuperare per brevi attimi la bellezza perduta, le si presenta in sogno accanto all’albero interdetto come un angelo con capelli stillanti ambrosia. Alle fugaci parole sulla sospetta e ingiusta proibizione di mangiare il frutto, segue il gesto temerario di cogliere e mordere. Eva, pur inorridita dal gesto, non si ritrae e in una sorta di bacio simbolico, morde quello stesso frutto che l’angelo le avvicina alla bocca, per poi levarsi in volo insieme a lui allontanandosi dal Giardino. Ben diverso è il ritorno alla realtà nel libro IX, quando Satana, definitivamente degradato nel corpo del serpente, dimentico di sensualità e desiderio, persegue esclusivamente la sua opera di distruzione in odio a Dio. E dunque, persuasa Eva stavolta con appassionata, protratta eloquenza, si allontana strisciando mentre lei ingordamente divora i frutti in solitudine, non sapendo, aggiunge il poeta, di star ingoiando la morte. In relazione alla natura dell’albero, stupisce che il termine onnipresente in entrambe le situazioni sia “frutto”, mentre “mela” – per la precisione “belle mele”, fair apples – compare un’unica volta, per bocca del serpente. Una scelta strana quella di nominare infine l’albero, che forse tende a differenziare le due tentazioni, distinguendo il frutto onirico da quello reale: in sogno esso, giustamente indeterminato, non vale tanto di per sé quanto come suggello di un incontro che porta altrove; al contrario, nella realtà il frutto diviene il vero obiettivo, il veicolo della trasgressione del divieto, e quindi sottratto all’indeterminatezza e giustamente focalizzato attraverso il nome.
Un albero, il melo, che dà buoni frutti, se pensiamo a quale fortuna essi abbiano goduto attraverso i secoli: dalle mele delle Esperidi, alla mela di Paride, a quella di Newton, a quella di Biancaneve; e pensiamo anche alla Grande Mela che è New York, erede nel nome di attività legate al mondo degli ippodromi negli anni venti, e a quello del Jazz negli anni trenta. Pensiamo infine alla mela avvelenata con cui negli anni cinquanta si suicida Alan Turing, padre della scienza informatica e decifratore di codici nazisti; una mela addentata a cui forse si ispira il suo grande ammiratore Steve Jobs.
Lasciando la tradizione cristiana, passo brevemente al mito classico e ad alcuni maestosi alberi di cui esso ci racconta l’origine. È soprattutto Ovidio nelle Metamorfosi a raffigurare esistenze arboree inestricabilmente ibridate con la natura umana, in inesausti andirivieni sulla scala dell’essere. Due storie in particolare mi paiono significative, miti entrambi incentrati sulla figura femminile e sulla sessualità trasgressiva in un caso agita, nell’altro subita; figure di donne a cui la mutazione vegetale di volta in volta offre una via d’uscita oppure impedisce la fuga. Per prima Mirra, consumata dalla passione incestuosa che la nutrice aiuta a soddisfare; finché il padre, curioso di conoscere la sua amante segreta, non la illumina e sconvolto sguaina la spada per ucciderla.
Gravida di suo padre – scrive Ovidio (X, 476-502) –
fuggì Mirra, e col favore delle tenebre
si sottrasse alla morte…
Nove volte riapparve la falce di luna,
finché sfinita si fermò in terra di Saba, reggendo
a stento il peso del ventre. E allora,
temendo la morte ma odiando la vita,
questa preghiera rivolse agli dei…
“perché vivendo io non profani i vivi
e morta i defunti, cacciatemi dal mondo di entrambi:
fate di me un'altra cosa, negandomi vita e negandomi morte!”
Un dio l’ascolta e le offre l’albero come nascondimento e rifugio, come altra, sconosciuta possibilità di esistere. L’unico legame con l’antica natura è nel figlio imprigionato nel legno che lotta per vedere la luce. Giunone Lucina, la dea del parto, aiuta Mirra aprendo un varco nella corteccia, e permettendo al bellissimo bimbo Adone di nascere. Il distacco dal corpo del figlio rappresenta per la madre la definitiva assunzione della natura arborea, che come unico ricordo dell’umano conserva le lacrime. Scrive Ovidio:
Mentre ancora parla,
la terra le avvolge le gambe, si fendono le unghie dei piedi,
e si diramano in radici contorte…
le ossa si mutano in legno, il sangue in linfa,
in grandi rami le braccia,
in ramoscelli le dita, in dura corteccia la pelle.
La pianta crescendo fascia il ventre,
sommerge il petto e quasi copre il collo:
intollerante di indugi, lei si china incontro
al legno che sale e le avvolge il volto.
Ma pur perduta col corpo la sensibilità di un tempo,
non si ferma il pianto e dalla pianta trasudano tiepide gocce.
Son lacrime che a Mirra rendono onore:
la mirra che stilla dal tronco
a imperitura memoria conserva il suo nome.
La metamorfosi, allontanando Mirra dalla vita e dalla morte, le dona un’altra natura e le permette di continuare a esistere. Diverso è il destino di Dafne, la incolpevole ninfa figlia del fiume Peneo, che supplica di perdere la natura umana per salvarsi dalla passione di Apollo. Lontana dalla sessualità e dal desiderio, assume a modello Diana e aspira alla sua stessa verginità, nonostante il padre la inciti a sposarsi, e numerosi pretendenti la cerchino
. “Lei li respinge – narra Ovidio – e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi.” Non riesce tuttavia a sfuggire al dio che la insegue, e che prima tenta di sedurla con suadenti parole per poi passare all'ostentazione del potere, elencando i privilegi del suo status divino: “ Non sai, impudente, non sai chi fuggi, e per questo fuggi”, si inquieta Apollo, ma inutilmente; e allora non gli resta che l’aggressività del predatore:
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi;
questo le è già quasi addosso
e ormai convinto d'averla presa,
quella sfugge ai morsi all’ultimo istante
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per la paura….
Infine, stremata, vinta dalla fatica di quella corsa
allo spasimo, si rivolge alle acque del fiume,
“Aiutami, padre” dice, “dissolvi, mutandola, questa figura
per cui troppo sono piaciuta”.
Solo apparentemente la metamorfosi la salva, cancellando tutto ciò che è stata, opponendo il torpore alla corsa, “le pigre radici” alla mobile libertà, costringendola al contatto cui ha tentato di sfuggire,
Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto la nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.
E allora il dio: “Se non puoi essere la mia sposa,
sarai almeno la mia pianta. E di te, alloro, sempre ornerò
i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra…”.
È fausto il futuro che pronostica il dio, legando l’alloro alla gloria degli eroi; e l’albero, commenta Ovidio chiudendo l’episodio, annuisce. Eppure, non si può non interrogarsi su quell’agitare di foglie in cui il poeta legge un assenso; come si fa infatti a non pensare al passato di Dafne, paura fuga rifiuto; e allora, come non chiedersi se ora, radicata per sempre alla terra, i muti gesti della chioma, come le lacrime di Mirra, non siano l’ultimo segno dell’umano, il ricordo della vita perduta.
Nel percorso verso la modernità, inevitabile è fermarsi brevemente sul teatro di Shakespeare, che più volte evoca la natura e in particolare gli alberi, intrecciandone l’esistenza alla vita dell’uomo, e non di rado rendendoli partecipi del suo destino
. Come il salice su cui Ofelia si arrampica in preda alla pazzia, ansiosa di inghirlandare i rami con coroncine di ranuncoli ortiche e margherite, forse non sapendo di andare incontro alla morte; o forse sì, volendo dar credito ai becchini dell’atto V dell’Amleto che mettono in dubbio la liceità di seppellire una suicida in terra consacrata. Ma in tema di alberi, pieni di stimoli sono i boschi shakespeariani. Come il bosco di sicomori alle porte di Verona, che per Romeo prima di incontrare Giulietta rappresenta la perfetta scenografia dell’artificioso amante petrarchesco: quando ancora, come da manuale, si strugge per un amore non corrisposto all’ombra cupa degli alberi. Di lì a poco, in tutt’altra funzione, compare il bosco nel Sogno di una notte di mezza estate; un testo che, pur rientrando nel genere commedia, trasuda amarezza e apre domande sulla qualità del lieto fine. La foresta nella quale fuggono i giovani allontanandosi dalla corte di Atene, si connota nelle loro aspirazioni come spazio di autonomia e di libera scelta contrapposto al mondo del potere e ai suoi condizionamenti. In realtà il ritorno alla natura non salva, sia perché la figura del potere notturno rispecchia, con accresciuta violenza, quello diurno, sia perché la foresta, il luogo immaginato come sede di appagante incontro con l’altro, si fa scenario di solitudine estrema, dove il senso dell’identità si perde e la fiducia nelle figure amate crolla. Il luogo di tenebra dove il sogno si trasforma in incubo.
Se nel Sogno la foresta diviene una sorta di teatro dell’inconscio dove si alimentano gli incubi, e si può anche immaginare che l’amato rida mentre un serpente ti mangia il cuore, nel Macbeth la foresta, pur assolvendo una funzione molto diversa, si intreccia anch’essa all’enigmaticità e al turbamento dell’irrazionale. Qui la natura, quasi ripristinando quel milk of human kindness, “latte dell’umana gentilezza” che Macbeth ha perduto, si allea con le forze del bene, determinando la restaurazione dell’ordine: sono infatti i rami tagliati nel bosco che permettono agli armati di avvicinarsi al castello non visti. E tuttavia la realtà, come sempre in Shakespeare, non si struttura in compartimenti stagni, e il bene viene toccato dalla contaminazione del male, perché è la parola equivoca delle streghe a ipotizzare una sconfitta a cui Macbeth non crede: “Macbeth invitto resterà / fino a che il gran bosco di Birnam contro di lui avanzerà”. Il che, appunto, a suo modo avviene.
Lascio le altre foreste shakespeariane per arrivare infine al Novecento e al solitario alberello di Aspettando Godot che in Beckett è parte integrante della scena, come indica la didascalia iniziale: “Una strada di campagna. Un albero”. Parte integrante, dicevo, poiché non solo correda l’ambientazione, bensì a più riprese fornisce spunti di discorso: così, indicato come luogo dell’appuntamento con Godot, stimola la curiosità di Vladimir ed Estragon che osservando e attendendo, dialogano “Ma cos’è? Boh, un salice piangente. E le foglie? Dev’essere morto. Allora basta lacrime. O magari non è stagione”. Poi, nella speranza di un’erezione, l’albero ispira ai due l’idea del suicidio, da cui tuttavia desistono per mancanza di una corda e in dubbio sulla tenuta dei rami. Più giù l’alberello diviene ridicolo, impossibile riparo dietro cui nascondersi e addirittura modello da imitare, perché i due a turno, malamente in equilibrio su un piede, fanno l’albero. E sebbene Estragon concluda “decisamente quest’albero non ci sarà servito a un bel niente”, la pièce lo smentisce, perché sono proprio le tre o quattro foglie indicate in didascalia nel secondo atto che lo rendono testimone attendibile del tempo che passa, misura certa di quell’alternarsi di giorni e stagioni, che disorienta i personaggi. Nel finale, ispirando nuovamente l’idea del suicidio, l’albero offre una formidabile occasione alla tragicommedia: Estragon, convinto da Vladimir a rendere disponibile lo strumento per impiccarsi, si slaccia la corda che gli sostiene i pantaloni e rimane in mutande. Una combinazione di riso e pianto che anticipa la battuta della vecchia Nell a un passo dalla morte in Finale di partita: “Non c’è niente di più comico dell’infelicità”. Ma in fondo, come dice Vladimir, “tutto è morto, tranne l’albero”: la pianticella indeterminata che con le sue poche foglie accompagna i personaggi nel loro assurdo esistere e si fa segno anch’essa della tragicomica attesa di Godot.